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“ars sine scienthia nihil est” è il tema delle opere di Pierluigi da Udine e vuol significare che qualsiasi espressione dell’uomo per potersi definire opera d’arte sacra deve soddisfare due requisiti fondamentali: possedere un fine, nel caso trasmettere la conoscenza delle cose eterne, ed essere eseguita secondo mezzi accertati (cfr. Summa Teologiae, II-III, 47, 4-2 e 49, 5-2).
Il fine dell’arte non è speculativo ma pratico, e fine altissimo al quale deve tendere l’opera d’arte che per tale ragione si definisce “sacra” è quello di servire come supporto alla contemplazione, posto che il massimo fine dell’umano genere non può essere altro che aspirare alla beatitudine celeste. I purissimi mezzi espressivi dell’arte sacra sono dunque veicoli delle produzioni umane realizzate sul modello di ciò che è stato visto “sul monte”. L’artista dunque si applica, come poeta Dante nel Vita Nova, all’imprimere alla materia proprio quella visione : “I'mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando”.
L’anonimato dell’artista è poi dell’opera sacra la prova del devoto rispetto per una visione o idea che egli non ritiene propria ma che considera dono dello Spirito, è dunque moto dell’anima che imita l”io non faccio nulla da me stesso” di Gesù Cristo. L’ego deve quindi retrocedere (via remothionis) dando espressione all’idea senza rivendicarla come propria concezione.
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